Dopo i versi di Martin Piaggio, ottocenteschi, anche Giovanni Ansaldo, caporedattore de “Il Lavoro”, nel 1930 la officiò pubblicamente, con un’appassionata missiva ad una ristoratrice della zona di Sottoripa (a Sciâ Carlotta), cantandone le 24 bellezze. Sottoripa…, riva di Caricamento cara anche a Montale (“paese di ferrame e alberature”)…ai tavoli dei ristori sedevano fianco a fianco il giornalista e lo scioperato, il camallo e la prostituta, l’intellettuale e il faccendiere.

Carciofi sì o no?

Di fatto, era sin lì regnata un po’ di confusione. Anzitutto le sottilissime sfoglie, non 33 (gli anni di Cristo) e tantomeno 77 (le meravigliose gambe delle donne), ma più sobriamente 3 sopra e 3 sotto, ecco il 33, unte d’olio e ondulate grazie al soffio d’una cannuccia fra le une e le altre… E poi la torta cappuccina, che secondo alcuni indicherebbe una farcia dove l’acidula ma amata prescinsêua si mescola alle verdure e non le sovrasta, secondo altri una farcia di sole biete (erbette)… Sia come sia, certamente la Pasqualina – torta profumata di primavera – non nacque di carciofi, sebbene oggi quelli di Albenga inducano legittime tentazioni, poiché essi, nella stagione in cui veniva cucinata, presso le “besagnine” non erano disponibili…

Le gattafure

Questa ricetta, al pari della torta di riso (oggi tanto simpaticamente citata da alcuni comici…), fa parte di quelle “gattafure” descritte nelle cuciniere rinascimentali anche d’àmbito pontificio. Ortensio Lando, erudito meneghino, così le nominò (“Catalogo delli inventori delle cose che si mangiano et si bevano”) in quanto “trafugate” ghiottamente dalle gatte, ma egli stesso apprezzò assai, ed apprezzò più che l’orso il miele… 

Pasqualina ieri e oggi

Rito tuttora festoso e fastoso, oggi l’esecuzione della Pasqualina ovviamente “riduce” i formati, che talora erano di dimensioni sorprendenti (la famiglia costituiva un clan allargato) tanto da impedire la cottura delle torte nei forni di casa, ed il ricorso a quelli delle sciamadde e dei törtâe, donde l’incisione di sigle di riconoscimento, che potevano essere le iniziali del pater familias, sulla superficie superiore (la quale viene saggiamente bucata prima della cottura, per monitorarne l’andamento, e prevenire scoppiettii).

Qualche utile input

L’impasto – ma ogni massaia custodiva e custodisce i propri comandamenti – riposa su una salvietta umida sotto e asciutta sopra. Le biete della farcia vengono intanto saltate qualche minuto, rammentando peraltro che poi cuoceranno nuovamente in forno (a Levanto la variante “bestassa” omette la prima cottura, e farcisce le sfoglie con un mix di verdure a crudo). I funghi secchi sono viceversa facoltativi. Ecco poi la “scenografia” pasquale conclusiva, ovvero le uova intere scocciate ben “in vista” nelle goghe di prescinsêua, a rievocare il percorso del sole e l’avvicinarsi del solstizio estivo, indizio (gastronomico) di quel sincretismo che attraverso i secoli, e grazie alla lungimiranza di alcuni Papi, “trasportò” dentro il cristianesimo molteplici usi della ruralità “pagana”.

Buon appetito e cin cin

Amici lettori, la cottura infine (valutate il vostro forno) prevedrebbe 170° per almeno 40 minuti, fuoco alto sia sopra che sotto. Poi si testa l’orlo, quel minimo elegante arriccio di sfoglia (öexin), e se il test è positivo voilà la magia, da proporre calda, tiepida, fredda, ma anche a quadrotti come appetizer o matafame. Quanto all’abbinamento enologico, la scelta implica vini bianchi secchi d’interessante acidità, suggerisco ad esempio un DOC Val Polcevera Bianchetta, da servire a 11°C, in tulipani a stelo alto. Long live Pasqualina!

Umberto Curti